Le ricerche + Sonia Tartaglia:  Il vissuto di HIV in adolescenti - quattro storie di vita

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Presentazione

L’idea di svolgere la mia tesi sulla realtà degli adolescenti nati con Hiv nasce da un’esperienza concreta che ha suscitato in me un profondo interesse. Da circa tre anni seguo all’interno di un’associazione di volontariato una ragazza sieropositiva che oggi ha 18 anni. Questo percorso mi ha posto davanti ad uno scenario nuovo, complesso, alimentando nel tempo il desiderio di accogliere ed approfondire il mondo degli adolescenti affetti da una malattia cronica mortale come l’Hiv. In effetti la realtà dei bambini sieropositivi che crescono e sempre più numerosi entrano, proprio negli ultimi anni, nella fase dell’adolescenza, rappresenta un fenomeno del tutto nuovo nella storia dell’infezione pediatrica da Hiv. L’avvento delle terapie antiretrovirali ha infatti reso possibile modificare l’evoluzione clinica dell’infezione, aumentando sensibilmente la sopravvivenza dei bambini sieropositivi e migliorando la qualità della vita. Lo scopo della mia ricerca è indagare l’influenza dell’Hiv in adolescenza, cercando di esplorare fino a che punto questa malattia si insidia nei diversi contesti della vita quotidiana, quanto condiziona l’immagine che gli adolescenti vanno costruendo di sé, le loro relazioni, i più profondi affetti, cercando di comprendere se e in che modo siano riusciti ad includere tale evento nella loro storia personale. Hanno partecipato alla ricerca due ragazze e due ragazzi di età compresa tra i 18 e i 22 anni. Il contatto con loro è avvenuto attraverso la psicologa dell’Ospedale Bambino Gesù, dove tutti e quattro sono ormai seguiti da tempo. Mi sono avvalsa in particolare del metodo qualitativo, fondato sul dialogo e sull’incontro empatico, che tiene conto dell’unicità di ogni storia umana e della soggettività dei partecipanti alla ricerca, dando loro dignità e competenza. ***Nel dispiegarsi della mia ricerca ho considerato la questione della rivelazione della diagnosi di primaria importanza per comprendere il sistema relazionale e comunicativo in cui questi adolescenti sono inseriti e per spiegare il successivo sviluppo di alcune modalità di difesa. Un elemento interessante che ho rilevato è che la comunicazione della diagnosi non è una verità che irrompe traumaticamente nella vita di questi ragazzi, ma è più una conferma di una verità saputa, la concretizzazione in un nome chiaro dei tanti fantasmi immaginati negli anni. Fin da bambini infatti, avevano la percezione di essere malati, alimentata dalla quotidiana assunzione dei farmaci, dai frequenti controlli ospedalieri, ma le loro domande, i loro dubbi non hanno mai trovato un giusto e reale accoglimento da parte degli adulti di riferimento. Così sceglievano di non chiedere più, per non preoccupare con le proprie richieste i familiari, assumendo un ruolo chiaramente protettivo e terapeutico nei confronti degli adulti, che si manifesta con il silenzio e la negazione dei propri timori e sofferenze. Per i genitori l’ostacolo maggiore ad accogliere i bisogni del bambino è legato in primo luogo al fatto che vivono un’esperienza comune, quella della malattia, verso la quale loro stessi si sentono impotenti e bisognosi di protezione e poi al frequente senso di colpa. Questi ragazzi, in analogia con l’assetto difensivo utilizzato dagli adulti, hanno imparato a difendersi dalle esperienze dolorose attraverso la negazione del dolore, fingendo prima di tutto con se stessi e poi anche con gli altri, alimentando il desiderio di essere forti ed indistruttibili per contrastare un fondamentale senso di fragilità ed impotenza. In alcuni di loro ho rilevato anche un’evidente scissione tra la sfera cognitiva e quella emotiva.

Una peculiarità dell’infezione da Hiv è il contesto socioculturale in cui essa si colloca, poiché spesso colpisce famiglie già compromesse da numerosi fattori di rischio. Si tratta di famiglie multiproblematiche, disgregate, segnate da vissuti di tossicodipendenza in uno o entrambi i genitori. L’Hiv inoltre si pone come malattia tipicamente multigenerazionale: una delle conseguenze più immediate è che si verifichino perdite familiari multiple. L’ambiente familiare in cui sono stati immersi questi adolescenti è dunque instabile, arido dal punto di vista affettivo, incapace di fornire un pieno contenimento, lasciando in loro profonde carenze che hanno impedito lo stabilirsi di un attaccamento sicuro. Il dramma dell’Hiv va quindi ad inserirsi come ulteriore elemento di disagio in una realtà già di per sé disgregata. Ho constatato come tale virus riesca ad invadere prepotentemente ogni singola dimensione dell’esistenza, a partire dalla realtà quotidiana, scandita da un protocollo terapeutico da rispettare rigidamente: quest’ultimo, oltre che richiedere al paziente scelte difficili, rappresenta un richiamo assiduo alla malattia, andando ad accentuare il loro vissuto di persone diverse perché malate. Le principali difficoltà sono riconducibili all’elevato numero di farmaci da assumere, al prendere la terapia fuori casa, spesso davanti agli amici, alle trasformazioni che il corpo subisce a causa degli effetti collaterali. Questi adolescenti si trovano a confrontarsi non solo con i cambiamenti dello sviluppo puberale ma anche con quelli causati dalla malattia. Questo dà l’idea di come le problematiche comuni tra gli adolescenti sani possano acuirsi ed emergere con maggiore forza negli adolescenti malati cronici. Anche i ricoveri ospedalieri, a cui sono abituati fin da piccoli, oltre che costituire uno sradicamento dall’ambiente di appartenenza, non fanno che marcare la differenza tra salute e malattia e acuire il confronto con i coetanei sani; diventa spesso imbarazzante dover giustificare i propri ricoveri, le proprie assenze a scuola, trovandosi il più delle volte costretti a mentire. E’ interessante constatare l’importanza del rapporto che si instaura con lo staff medico: un rapporto privilegiato, consolidato nel tempo, caratterizzato da fiducia, affetto e familiarità. Gli operatori rappresentano dei punti di riferimento stabili e significativi, su cui poter contare sempre, soprattutto durante i periodi di degenza. Divenire consapevoli di essere affetti da una malattia che incide profondamente non solo sul proprio corpo ma anche inevitabilmente sulla propria vita personale e sociale, causa un dolore profondo, di cui è spesso difficile parlare. Nelle loro relazioni d’amicizia o d’amore ho rilevato significative differenze nel modo di porsi, nel comunicare o tacere la propria diagnosi ad amici ed eventuali partner: in alcuni di loro prevale l’esigenza di essere sinceri e leali con le persone importanti, nonché la necessità di liberarsi da un carico emotivo troppo pesante da sostenere, condividendo con qualcuno quella che è una parte della propria identità; in altri invece prende il sopravvento la terribile paura del rifiuto, dell’allontanamento o della perdita dell’altra persona. Questa paura e sfiducia nei confronti del mondo esterno impediscono di comunicare, di confrontarsi, portandoli spesso ad autoisolarsi, senza rendersi conto di quanto proprio il loro timore di essere diversi, attivi le ansie ed i comportamenti di fuga da parte del sociale. L’alternativa è quella di crearsi un’ “isola felice”, frequentando prevalentemente coetanei sieropositivi, con i quali è possibile sentirsi come tutti gli altri, in una realtà comunque limitata e ghettizzante. A quest’età si è inoltre di fronte alle prime esperienze sessuali: esplorare la sessualità fa parte del normale sviluppo di ogni adolescente, ma per l’adolescente sieropositivo la sfida si rivela ancora più complessa perché in generale la sessualità è legata alla vita; con l’Hiv invece è legata alla morte, all’idea di poter essere contagiosi, pericolosi per se stessi e per gli altri, di non poter procreare ed essere amati. Il fantasma della malattia dunque è sempre presente e non lascia incontaminata nemmeno la dimensione futura, che risulta fortemente compromessa. La progettualità a lungo termine è debole, quasi si avesse paura a proiettarsi in un tempo troppo lontano. Si coglie infatti in ciascuno di loro un forte imperativo categorico: carpe diem, cogli l’attimo, che risuona come un’imposizione a vivere la dimensione del presente, catturandone ogni singolo attimo, ogni gesto, perché il futuro è incertezza. C’è poi da dire che l’adolescente sieropositivo è stato spesso considerato durante la sua infanzia come un bambino senza tempo; oggi ci troviamo di fronte a ragazzi che non sono mai stati immaginati in un futuro, che fin dalla nascita sono stati associati alla malattia, alla morte. Tra le principali preoccupazioni rispetto all’avvenire c’è quella di costruirsi una famiglia, di non poter essere amati, e la profonda fede e speranza nel progresso della scienza, perché riesca a trovare il vaccino. Le angosce di morte, a cui nessuno di loro fa accenno risultano tenute a bada da solidi meccanismi di negazione. Ora che si allunga la quantità della vita bisogna occuparsi della qualità. Ora più che mai è importante che questi adolescenti riescano a definirsi nel futuro in una dimensione progettuale. L’assunzione della loro parte di identità Hiv deve essere la base per costruire le loro risorse, puntando sulla valorizzazione delle competenze individuali. E’ fondamentale restituire all’adolescente un riconoscimento della propria individualità, renderlo protagonista della propria esistenza, consapevole delle proprie competenze e risorse.