testimonianze + 2014 Luglio 3, Guatemala - la vita di K.

Il mio sogno è proteggere le donne, le bambine e i bambini maltrattati e lottare contro le ingiustizie nel mio Paese, il Guatemala.

Cantavo negli autobus

Sono nata nel 1988, in una famiglia molto povera. Mio padre, non l’ho conosciuto. Mia madre ha avuto cinque figli, tre femmine e due maschi. Quando è rimasta incinta di me, la coppia per la quale lavorava le chiese di darmi in regalo. Mia madre accettò, ma quando sono nata mi ha amato, e non è riuscita a separarsi da me.

Ha perduto il lavoro, per sopravvivere ha cominciato a vendere della droga e a consumarla. A sei anni, mi ha mandato insieme alle mie sorelle a cantare negli autobus per racimolare qualche soldino che l’aiutava a pagare il mangiare e l’affitto della stanza nella quale vivevamo.

Da un istituto all’altro, da un maltrattamento all’altro

A nove anni ero stanca di questa vita, tanto più che mio fratello maggiore, che aveva preso il ruolo di padre in casa, ci picchiava per educarci. E poi, io volevo studiare ma non era possibile perché mamma non aveva soldi per pagarmi la scuola ed ero io che dovevo lavorare per lei. Allora sono scappata da casa e sono entrata nell’istituto C.A. Là mi sentivo bene, avevo un letto, tre pasti al giorno e potevo studiare. C’era tutto per vivere bene materialmente, ma non l’amore di cui avevo bisogno. Gli educatori non ci domandavano mai la nostra opinione e prendevano tutte le decisioni per noi. E se trasgredivamo una regola, ci punivano severamente.

Quando ho compiuto 12 anni, hanno deciso che ero pronta per tornare a casa, dove mi aspettava una brutta sorpresa: mia madre era malata di cancro in stadio avanzato. Non sapevo come aiutarla. Prendeva droga per alleviare il dolore. Un giorno che si stava torcendo nel suo letto dal dolore e non voleva mangiare, le ho comprato della droga e le ho detto: Mamma, se tu mangi quello che ti ho preparato ti darò la droga. Ma poi mi sono resa conto che così non le ero utile, e mi sentivo un peso per la mia famiglia, quindi ho deciso di ritornare all’Istituto.

Qui la situazione era peggiorata: il regolamento era più severo e le punizioni più dure. Un giorno, un prete spagnolo senza esperienza ha sostituito le educatrici convocate per una formazione. Noi siamo riuscite a prendergli la chiave per aprire la porta e fare entrare una decina dei nostri amici della strada, che stavano accampati dietro all’Istituto. Abbiamo preparato loro da mangiare, abbiano utilizzato tutto il cibo previsto per il fine settimana. Appena le educatrici sono rientrate, ci hanno punito severamente. Mi hanno proibito di parlare alle mie compagne per una settimana. E se lo facevo, aumentavano gradualmente il tempo della punizione fino a un mese. Altre erano state mandate in una casa per giovani madri, dove dovevano lavare i panni dei bambini, pulire la casa e preparare i pasti. Allora, con due altre compagne abbiamo deciso di fuggire e siamo andate a vivere in un gruppo di strada. I poliziotti mi hanno arrestata e poiché ero minore, un giudice mi ha inviata all’Istituto R., dove sono rimasta due anni. R. è una setta evangelica, ci maltrattavano e ci picchiavano se non osservavamo le regole o se provavamo a fuggire. Dopo un anno mi hanno inviata in una casa dove vivevano bambini da due a sette anni. Ogni adolescente aveva la responsabilità di un gruppo di cinque bambini. Dovevamo dar loro da mangiare, lavarli, lavare i loro vestiti, occuparci della loro salute. Eravamo come delle mamme per loro. Mi ricordo di essere stata molto felice quando una bimba di due anni ha pronunciato la sua prima parola chiamandomi “mamma”.

Il giorno che i responsabili pensavano di averci sottomesse, ci mandavano a vendere dei prodotti per strada, delle cartoline religiose o dei vestiti. Io ne approfittai per fuggire perché non potevo sopportare la vita dell’Istituto, soprattutto perché i responsabili ci picchiavano, e picchiavano anche i bambini di due, tre anni, per esempio se facevano ancora la pipì addosso.

Ma nella strada, il gruppo nel quale avevo vissuto prima era stato cacciato dalla polizia, allora sono entrata in un altro. I lavoratori di vari istituti venivano a farci visita in strada, ci portavano da mangiare e ci invitavano a entrare nei loro centri. Quando quelli di R. arrivavano, mi nascondevo perché non mi costringessero con la forza a tornare con loro. Mi sono lasciata fregare dalla promessa di un certo T., il responsabile dell’istituto “I Nostri Diritti”, che prometteva di farmi studiare. Con altri cinque compagni e compagne abbiamo accettato la sua proposta. Ma ci aveva mentito, non ci dava la possibilità di studiare. Ci rinchiudevano in casa durante la notte e durante il giorno dovevamo chiedere l’elemosina per avere da mangiare. Una volta, ho trasgredito una norma della casa e il direttore T. mi ha invitata ad andare con lui per donare a un altro istituto una parte dei polli che aveva ricevuto. Io ero molto contenta all’idea di portare del cibo in un posto dove i giovani soffrivano per la fame e per i maltrattamenti. Quindi ho accettato con gioia il suo invito, ma era una trappola. Appena siamo arrivati, due uomini sono usciti dalla casa, non per prendere i polli ma per trascinarmi di forza in questa casa di correzione. Si chiamava “Reto de la juventud” (Sfida della gioventù), era un istituto evangelico. La mattina, per un’ora, leggevamo la Bibbia e cantavamo degli inni a Dio. Ognuno aveva dei versi della Bibbia da imparare a memoria per recitarli nel culto della sera. Se li dimenticavamo eravamo obbligati a ricopiare pagine e pagine della Bibbia. Di notte, ci chiudevano tutte e sedici in una stanza con un secchio per i nostri bisogni. Ci risvegliavano alle tre del mattino e avevamo una sola botte d’acqua per lavarci tutte. Il cibo era cattivo, i prodotti scaduti. E come negli altri istituti, i responsabili mangiavano a parte, del cibo molto più buono del nostro. Le trasgressioni erano punite duramente, e la peggiore era chiamata “Il diavoletto pensante”: si trattava di mettersi per terra tenendosi sui gomiti e sulle punte dei piedi, il mento fra le mani e il corpo sospeso. Poteva durare da mezz’ora a un’ora e anche di più. Se cadevamo, dovevamo subito rimetterci in posizione. Dopo tre mesi, sono rientrata nell’istituto di T., ma sono rimasta solo una notte perché non avevo più fiducia in lui.

Nella strada ho trovato una vera famiglia

Sono ritornata per strada. Il gruppo della strada era la mia famiglia, una famiglia dove ero rispettata, ascoltata, protetta. Durante la notte tutte le ragazze dormivano insieme e i ragazzi a turno montavano la guardia per proteggerci. A volte arrivavano dei poliziotti per picchiarci o abusare di noi. La mattina ci organizzavamo per la giornata. Alcuni andavano al mercato a chiedere della verdura o delle ossa per fare il brodo. Altri andavano nei ristoranti per recuperare dei resti di pane o di tortillas. Altri ancora chiedevano l’elemosina per strada. Poi ci ritrovavamo, e preparavamo la nostra zuppa, che chiamavamo “la calda”, cucinata in una grande latta di conserva. Se passava qualcuno di un altro gruppo, lo invitavamo a magiare con noi.

Ma la strada ha anche i suoi aspetti negativi: la gente ci disprezza, ci tratta come rifiuti. Le ragazze corrono sempre il rischio di essere violentate, i giovani di strada sono picchiati, torturati, uccisi. Per dimenticare le umiliazioni, la fame, il freddo, ci rifugiamo nella droga: solventi, marijuana, crack.

Al Mojoca, i miei sogni diventano realtà.

Alcuni dei miei compagni mi parlavano del Mojoca, m’invitavano ad andare con loro. Io non volevo perché pensavo che fosse un istituto come tutti gli altri. Poi ho conosciuto i responsabili e mi sono decisa a vedere com’era. Mi hanno ricevuto molto bene. Quello che mi ha colpito di più era che gli educatori mangiavano assieme a noi lo stesso cibo. Al Mojoca, si rispetta la nostra libertà e non ci rinchiudono contro la nostra volontà. Abbiamo il diritto di parlare e di essere ascoltati. Siamo noi che decidiamo cosa vogliamo fare e quali attività svolgere con gli educatori. Il Mojoca è una famiglia dove nessuno è superiore all’altro, abbiamo tutti lo stesso valore. Il Mojoca è amicizia, solidarietà. Quindi ci sono andata regolarmente, e dopo un mese sono passata alla seconda fase, quella della scuola di mattina e la formazione professionale il pomeriggio. Finalmente realizzavo il mio sogno di studiare, perché volevo diventare avvocato per difendere i bambini e le donne maltrattate, e lottare contro le ingiustizie nel mio Paese.

Nel 2007 sono stata scelta con un’altra compagna per rappresentare il Mojoca in Italia e in Belgio, dove ho incontrato molte persone che ci vogliono bene, hanno fiducia in noi e ci aiutano a uscire dalla strada. Al mio rientro in Guatemala, sono stata eletta dai compagni della strada come loro rappresentante nel comitato di gestione, e ho lavorato per quattro anni nel Mojoca. In un primo tempo come educatrice di strada e poi nel servizio giuridico che aiuta i giovani ad ottenere i documenti d’identità e gli altri documenti necessari per trovare un lavoro in regola.

Per i giovani usciti dalla strada c’è solo lavoro in nero

Dopo questo periodo mi sentivo pronta per intraprendere una vita indipendente, e volevo lasciare il mio posto a un altro compagno perché facesse la stessa esperienza. Avevo il diploma di scuola media e pensavo che mi sarebbe stato facile trovare un lavoro. Mi sbagliavo. Ho trovato il mio primo impiego in una «maquila» (fabbrica di assemblaggio di vestiti gestita da sud-coreani). Il mio lavoro consisteva nel togliere i fili che restavano sui vestiti cuciti. Il caporeparto, che chiamavamo «il cane», era un guatemalteco. A turno, obbligava le ragazze ad andare a letto con lui, altrimenti le faceva cacciare dalla fabbrica. Designava le sue vittime con una pacca sul sedere. Quando me l’ha fatto, mi sono rivoltata e gli ho dato un ceffone in faccia. Lui è diventato tutto rosso. Il giorno stesso mi hanno chiamato nell’ufficio della direzione per dirmi che ero licenziata.

Prima di iniziare il lavoro dovevamo riempire un formulario e ci domandavano di scrivere a mano una lettera di dimissioni per incompetenza. Con questa sono stata licenziata, e ho dovuto lottare per due mesi per ottenere il pagamento dei miei giorni di lavoro.

Allora sono entrata in un’altra fabbrica, dove uno dei miei fratelli era caporeparto. Là dovevo togliere ogni giorno i fili da 300 vestiti . Cominciavo a lavorare alle sette di mattina e non potevo uscire fino a che non avevo finito tutto il lavoro, e due volte per settimana dovevo anche pulire il locale. Mi pagavano 50 quetzals al giorno (4,50 euro) e a volte ero obbligata a lavorare la domenica. Dopo hanno aumentato ancora il ritmo di lavoro e dovevo fare 500 vestiti al giorno, non ci riuscivo e ho dovuto lasciare la fabbrica. Mi sono subito rimessa a cercare lavoro, ogni giorno leggevo gli annunci sul giornale e ho visto che Pizza Hut cercava lavoratori. Quindi mi sono presentata con tutti i documenti richiesti: carta d’identità, titolo di studio, fedina penale.

Ho risposto bene a tutte le domande del primo colloquio. Ho superato i test psicologici. Tutto era perfetto, la radiografia dei polmoni e l’analisi del sangue. Ero sicura di avere il lavoro. Invece, alla visita medica finale, hanno scoperto che avevo un tatuaggio discreto, ed è per questo che mi hanno respinta.

A volte sono stata tentata di ritornare per strada, di consumare di nuovo droga. L’ho fatto, qualche volta, ma subito mi sono ripresa. Ero fiera di essere uscita dalla strada. Ora, per sopravvivere vendo pasticcini in giro. Quando va bene, guadagno 20 quetzals al giorno (circa 1,80 euro), 600 quetzals al mese. L’affitto della piccola stanza dove vivo mi costa 450 quetzals al mese. Se vendo abbastanza pasticcini, arrivo a fare due pasti al giorno con fagioli e riso. Quando non ho da mangiare, un’amica che lavora al Mojoca mi dà una mano. A volte, vado a mangiare da mia sorella, e quando ne ho la possibilità l’aiuto un po’, perché oltre ai due bambini suoi e al terzo che nascerà fra pochi giorni, lei accoglie due bambine di un’amica di strada.

Io amo i miei nipoti e queste due bambine come se fossero figli miei. Li incoraggio a studiare per preparare la loro vita e per cambiare la società ingiusta in cui viviamo.

Il mio sogno è avere un lavoro regolare e donare una parte del mio salario al Mojoca per aiutare altri giovani ad uscire dalla strada. Io continuo a frequentare i miei compagni e compagne della strada e li incoraggio a uscirne come l’ho fatto io. Sono riconoscente al Mojoca, a Gerardo, e a tutte le amiche e amici dell’Italia e del Belgio che ci aiutano a realizzare i nostri sogni. Sono stata accolta benissimo in tutti i gruppi. Ho ammirato tutto quello che fanno per trovare i soldi e aiutarci. Sebbene in Guatemala sia più difficile, vorrei anche io creare un gruppo di solidarietà nel mio Paese.